Una tavola rotonda a cura ReTer. Si terrà presso il Macro Asilo, sala Rome, giovedì 13 giugno 2019 alle ore 17:00.
Macro Asilo, via Nizza 138 o via Reggio Emilia 54, Roma - quartiere Salario-Nomentano (Mappa)
Nella maggior parte delle metropoli dei paesi a capitalismo avanzato, vi è una sempre più marcata dilatazione tra lo “spazio dei flussi”, ovvero la dimensione urbana investita dai processi di mercificazione e privatizzazione governati dalle reti estrattive del capitale, e lo “spazio dei luoghi”, caratterizzato dal moltiplicarsi di esperienze di riappropriazione e autorganizzazione da parte della società civile e dei movimenti sociali. A Roma questa polarizzazione risulta ancora più radicale in ragione di un deficit di governance e di politiche pubbliche che hanno accentuato entrambi i processi. Da un lato infatti, la carenza di regolamentazione del mercato da parte delle istituzioni e le politiche di dismissione e privatizzazione adottate in funzione dei vincoli di bilancio e del risanamento del debito, concedono ampio margine agli interessi dei privati nelle diverse articolazioni delle economie urbane. Manifestazioni significative in questo senso sono: la sostanziale mercificazione del patrimonio storico legata alla intensificazione e concentrazione dei flussi turistici e alla correlata espansione del fenomeno di airbnb; il crescente abbandono delle periferie che ha favorito la privatizzazione dello spazio pubblico legata all’affermarsi dei centri commerciali come unici luoghi di aggregazione; la cessione al privato di beni e funzioni pubbliche, tra tentativi di privatizzazione dei servizi e ricorrenti iniziative di dismissione del patrimonio immobiliare; l’espansione dei grandi circuiti di consumo culturale che penalizzano la produzione locale e gli spazi di cultura critica e di sperimentazione artistica; la crescita esponenziale di e-commerce, crowdworking e social media dell’economia di piattaforma che frammentano e depauperano i tessuti economici locali, il lavoro e il capitale sociale.
Per altro verso, almeno fino a non molti anni fa, in risposta alla progressiva erosione della funzione pubblica di protezione e cura del sociale e del territorio, si è assistito al moltiplicarsi di iniziative di riappropriazione sociale di spazi e immobili, sia di proprietà pubblica che privata, nell’ambito dei quali si sono sviluppate esperienze di autorganizzazione, autoproduzione e mutualismo che hanno garantito un tessuto di presidi territoriali e reti interorganizzate capaci di dare risposta a bisogni e diritti fondamentali – come il diritto all’abitare, l’inclusione sociale, l’accessibilità alla formazione, alla cultura, allo sport –, ma anche a un desiderio diffuso di socialità e a una volontà di trasformazione radicale del sistema socioeconomico e degli ambienti di vita. Su quest’ultimo terreno l’azione collettiva si è dispiegata sia nella costruzione di modi alternativi di produzione (economie solidali, cooperazione e sviluppo locale sostenibile, forme di autogoverno e rigenerazione dal basso), sia in iniziative conflittuali e vertenziali di contrasto ai processi speculativi collegati alla rendita urbana e di tutela dei commons naturali, sia nella tensione dalla partecipazione democratica alla costruzione dal basso di nuovo diritto sorgivo, nuove norme e nuove istituzioni.
Parliamo della città e del mondo dei beni comuni, che ha vissuto una effervescente crescita a Roma fino ai primi anni 10, con l’apice nel 2011, rappresentato dal successo referendario dei movimenti per l’acqua pubblica e dall’occupazione del teatro Valle, ma che negli ultimi anni sembra essere caratterizzato da una decrescita e sfaldamento delle esperienze di autorganizzazione che appare strettamente connessa al contrarsi degli spazi e dei margini di agibilità politica dettato dai sempre più stringenti approcci legalisti, economicisti e securitari nelle politiche pubbliche e dalla correlata verticalizzazione e centralizzazione della governance territoriale. Sicuramente ha anche inciso, nello specifico del contesto romano, l’involuzione del quadro e tessuto politico a partire dallo scandalo di Mafia capitale, che ha sottratto la sponda istituzionale alle azioni dal basso, ingenerando nel contempo nell’opinione pubblica uno scontento e uno smarrimento che hanno acutizzato la domanda di politiche securitarie e legaliste. Tutto ciò si è tradotto in un attacco frontale al tessuto associativo, agli spazi sociali e alle occupazione abitative che ancora nel 2017 si è parzialmente arrestato di fronte alla capacità di fare rete dei movimenti e della società civile. Ma questa capacità di resistenza sembra attualmente affievolirsi mentre si va rafforzando di converso nel governo centrale l’impulso autoritario ad azioni securitarie e repressive.
Ma va considerato un altro fattore di prima grandezza nella formazione e sviluppo di questi processi. Proprio a cavallo degli anni 10 si è verificato un “salto” tecnologico che probabilmente non ha precedenti nella storia dell’umanità. Sono gli anni in cui si è definitivamente affermata la cosiddetta economia di piattaforma, con una crescita esponenziale di anno in anno dei flussi di dati e dei valori economici. Appare sempre più evidente, anche a distanza di così pochi anni, che il cosiddetto capitalismo di piattaforma, che ha mutato radicalmente la struttura relazionale e le architetture informative dell’Internet, stia determinando cambiamenti strutturali anche sull’organizzazione sociale, disarticolandola su 5 differenti piani: tessuto produttivo ed economico, mercato del lavoro, sfera comunicativa e cognitiva, assetti democratici e capitale sociale. E appare altrettanto evidente come i regimi relazionali e comunicativi imposti dalle grandi piattaforme commerciali stiano favorendo nelle sfere economiche e politiche territoriali l’ulteriore espansione delle grandi reti estrattive e una crescente concentrazione proprietaria e di potere.
Il problema ulteriore, in questo quadro, è l’assenza di una consapevolezza diffusa del nesso tra tecnologie della comunicazione e strutture dell’organizzazione sociale, e quindi anche del salto tecnologico che ha incorporato il sociale in sistemi automatici che mediano e condizionano capillarmente pratiche sociali, usi del territorio, modi di produzione e mercati, riducendo ulteriormente la capacità del pubblico e del sociale di governare e finalizzare autonomamente i processi e gli assetti organizzativi socioeconomici, politici e culturali dei sistemi locali.
Appare inoltre molto significativo che con l’accelerazione dell’innovazione tecnologica e la centralizzazione delle infrastrutture della mediazione digitale sia venuta meno la capacità del sociale di retroagire in modo trasformativo sulla sfera tecnologica e mediale. A fronte di una forte componente di mediattivismo e hacktivism presente nei movimenti sociali a cavallo degli anni 2000, si è assistito, soprattutto nel contesto italiano e romano, a una forte contrazione, sempre all’interno dei movimenti e della società civile, della cultura critica del digitale e dell’iniziativa nella costruzione di modi, forme e spazi indipendenti e alternativi di interazione e comunicazione nel virtuale. Il primo e principale effetto del capitalismo di piattaforma sulla capacità di autorganizzazione locale è l’erosione del capitale sociale e la frammentazione della sfera pubblica che individualizzano l’interazione sociale, favorendo legami deboli di aggregazioni identitarie e omogenee – gli small worlds che si contendono visibilità sui social attraverso una comunicazione emotiva e polarizzata.
In riferimento all’insieme di questi processi, il sociale, contratto nelle pratiche, ha perso sia capacità di fare rete sia potenziale di mobilitazione conflittuale. Il problema, se riferito alla crisi della sfera pubblica, consiste nell’indebolimento delle pratiche nella loro valenza di “agire comunicativo”, ovvero della loro capacità di connettersi e autorappresentarsi in visioni, immaginari e progettualità antagoniste condivise ed espansive. In questo senso è necessario interrogarsi su come sia ancora possibile quella “mass-self communication” che Castells aveva teorizzato come possibilità di soggettivazione politica e strumento di sostegno alle lotte delle “reti di senso” per contrastare e riprogrammare le “reti strumentali”, e per conferire potenza allo “spazio dei luoghi” nel contendere potere e capacità di governo allo “spazio dei flussi” globalizzati. Appare perciò vitale dare spazio alle autonarrazioni delle pratiche, potenza alle voci della controcultura e della scena creativa indipendente, ma anche reintegrare in esse una cultura critica del digitale che faccia emergere le valenze sociali delle forme tecnologiche, a favore di forme aperte e decentrate che tornino a cedere potere al sociale a partire dal tema della conoscenza, della sua organizzazione (aperta) e produzione (collaborativa).
Tuttavia non è possibile incrementare questa potenza con gli strumenti immediatamente disponibili, o semplicemente attraverso una presa di coscienza della necessità dell’agire comunicativo. È necessario bensì che il sociale riacquisisca una conoscenza critica e trasformativa delle tecnologie della comunicazione interattiva, con la finalità di riappropriarsi degli spazi virtuali di interazione oltre che degli spazi fisici di relazione. Si tratta perciò di sperimentare, in alternativa alla “megastruttura” del capitalismo di piattaforma, linee evolutive e modelli alternativi della relazione tra tecnologie, società e territorio, da affidare alla costruzione di infrastrutture autonome definibili “tecnologie del sociale” o “tecnologie del comune”. Si tratta di evoluzioni già attive, che implicano la ricombinazione tattica di tecnologie interoperabili esistenti o la costruzione strategica di nuove e diverse architetture digitali, le cui configurazioni abilitino modalità aperte e decentrate di condivisione e cooperazione capaci di determinare un potenziamento delle istanze, delle rappresentazioni e delle intelligenze locali.
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